Modifica all’articolo 57 della legge 20 maggio 1985, n. 222, concernente l’abolizione della designazione di tre componenti del consiglio di amministrazione del Fondo edifici di culto da parte della Conferenza episcopale italiana ( 243 )
Onorevoli Colleghi! – Il Fondo edifici di culto (FEC) è stato istituito dagli articoli da 54 a 65 della legge 20 maggio 1985, n. 222, sulla base degli articoli da 54 a 65 del protocollo, firmato a Roma il 15 novembre 1984 e reso esecutivo con la legge 20 maggio 1985, n. 206, che approva le norme per la disciplina della materia degli enti e beni ecclesiastici formulate dalla commissione paritetica istituita dall’articolo 7, numero 6), dell’accordo, con protocollo addizionale, del 18 febbraio 1984, che ha apportato modificazioni al Concordato lateranense del 1929 tra lo Stato italiano e la Santa Sede.
Il FEC, quindi, è nato in modo formalmente singolare, perché la sua creazione non è dipesa da un’autonoma volontà del legislatore, come era avvenuto in passato per gli organismi cui l’attuale ente è succeduto, vale a dire la Cassa ecclesiastica e il Fondo per il culto.
I precedenti organi, infatti, in quanto enti statali o uffici dell’amministrazione
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civile, erano sempre stati creati e disciplinati da leggi dello Stato deliberate autonomamente: dalla originaria Cassa ecclesiastica (articoli 4 e seguenti della legge 29 maggio 1855, n. 878), al riordino del Fondo per il culto (articoli 1 e seguenti del regio decreto 29 giugno 1924, n. 1086), alle disposizioni dettate a proposito di questo dopo il Concordato del 1929 (articolo 19 della legge 27 maggio 1929, n. 848; articoli 56 e seguenti del regolamento di cui al regio decreto 2 dicembre 1929, n. 2262; regio decreto 11 gennaio 1930, n. 29; regio decreto-legge 19 agosto 1932, n. 1080, convertito dalla legge 6 aprile 1933, n. 455, e così via).
Invece il FEC, ente dotato di personalità giuridica, è sorto in base a un accordo con la Santa Sede, cui le citate leggi n. 206 e n. 222 del 1985 hanno dato attuazione nell’ambito dell’ordinamento giuridico statuale.
Correlativamente, la soppressione del FEC, come degli altri eventuali organismi creati in modo consimile, è subordinata alle forme pattizie da cui è scaturito il medesimo accordo.
In conseguenza del rapporto esistente fra norme del protocollo e norme statuali che vi hanno dato esecuzione, lo Stato, ove volesse modificare, derogare o abrogare le disposizioni riguardanti il FEC, ossia un settore della propria organizzazione amministrativa, dovrebbe preventivamente trovare un’intesa con la Santa Sede in quanto soggetto internazionale.
Ma la nostra Repubblica ben potrebbe riappropriarsi della sovranità ceduta a un soggetto internazionale estraneo, mediante il ricorso a una legge costituzionale che garantisca il primato del Parlamento in ordine alle scelte di interesse nazionale.
Tale soggetto straniero, ben capace di avere interessi, e strumenti per difenderli, nel nostro territorio nazionale, esercita una forte influenza sull’opinione pubblica, da un lato attraverso il sostegno di esponenti politici sensibili alle sue pressanti richieste rivolte, più che alla cura delle anime, a quella di beni mobili e immobili, dall’altro comminando vere e proprie «scomuniche politiche» ai danni di chi, nell’interesse supremo dello Stato, osa ricordare il monito riportato da Matteo nel suo Vangelo (22, 21): «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».
Si consideri, infatti, che la creazione del FEC trae la sua lontana ragion d’essere dall’esistenza di un patrimonio statale proveniente dalla cosiddetta «legislazione eversiva dell’asse ecclesiastico», emanata nel periodo risorgimentale dal 1850 in poi.
Tali beni erano stati attribuiti all’Azienda generale delle finanze, alla Cassa ecclesiastica, al demanio dello Stato, al Fondo per il culto e al Fondo speciale per usi di beneficienza e religione nella città di Roma.
Tali beni, al contrario di quanto avvenuto in altri Paesi europei, non furono mantenuti dallo Stato, ma da esso furono affidati a vari enti distinti dallo stesso e dotati di autonomia patrimoniale, allo scopo di rispettare il principio della separazione tra Stato e Chiesa e di non far gravare sul bilancio dello Stato della nascente nazione le spese per il mantenimento del clero.
Il patrimonio fu così diviso: gli enti conservarono la proprietà delle chiese aperte al pubblico e parte dei conventi; altra parte dei conventi fu ceduta ai comuni e alle province, che li utilizzarono per fini di pubblica utilità (uffici, scuole, ospedali), ovvero al demanio, che li alienò mediante aste pubbliche.
I compiti assegnati ai vari enti nel corso del tempo furono quelli di provvedere sia all’erogazione delle pensioni ai membri delle congregazioni religiose (monaci o monache), sia all’erogazione delle congrue ai parroci. Ciò avvenne fino all’anno 1985, quando, con l’ingegnoso e redditizio meccanismo del cosiddetto otto per mille, il sovvenzionamento del clero – e ben oltre, a guardare l’entità dei flussi monetari trasferiti dallo Stato italiano alla Conferenza episcopale italiana (CEI) – è stato diversamente e più generosamente risolto.
È quindi giunto il momento di riequilibrare le distorsioni stratificatesi nel tempo, poiché non vi è più neanche la
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giustificazione dell’indigenza di preti e religiosi, a fronte dell’opulenza di una Chiesa che, pur predicando valori spirituali altissimi di compassione, pietà, abnegazione di sé e amore per il prossimo, non disdegna il potere terreno che passa attraverso la proprietà di beni materiali e l’esercizio di influenza politica, indiretta o perfino diretta.
Tra donazioni più o meno volontarie, come nel caso della quota inespressa del cosiddetto otto per mille e benefìci fiscali che potrebbero configurarsi come occulti aiuti di Stato (in contrasto con gli obblighi derivanti dai trattati e dalla legislazione dell’Unione europea), come quelli concessi alle tante organizzazioni ecclesiastiche che svolgono attività avente, oggettivamente, fine di lucro, non considerata tale solo perché a governarne la sorte è un imprenditore avente status di ecclesiastico – qualità che gli consente di ottenere favore in questo Parlamento, a prescindere dalla composizione della maggioranza che pro tempore legifera e che, costantemente, ne ribadisce il diritto all’esenzione dall’imposta comunale sugli immobili (ICI), incurante dei moniti provenienti da Bruxelles -, è giunto il momento di riappropriarci di una nostra legittima prerogativa: decidere del patrimonio statale, anche quando tale patrimonio è finalizzato a soddisfare necessità di ordine religioso, senza la partecipazione di chi versa in conflitto di interessi.
Insomma, la gestione del FEC dovrebbe tornare nella disponibilità delle sole autorità statali, che in quanto laiche hanno l’obbligo di tutelare tutti, compresi i credenti e i religiosi, senza subire da parte di soggetti ecclesiastici un aiuto di cui, oggettivamente, non si sente la necessità e che, al contrario, appare dannoso a chi crede intimamente alla forza e all’auctoritas che uno Stato di diritto deve saper incarnare concretamente, tutelando gli interessi di tutti i propri cittadini, compresi quelli che hanno fede in altro che non negli ori e nel potere.
Per questo motivo, con la presente proposta di legge costituzionale vogliamo superare quella manifesta sudditanza del legislatore nei confronti della massime gerarchie ecclesiastiche che, dai tempi del fascismo, senza soluzione di continuità, ha connotato i rapporti tra Stato e Chiesa.
Intendiamo quindi liberare il consiglio di amministrazione del FEC dalla presenza dei tre esponenti designati dalla CEI, risparmiando loro questa incombenza, nel superiore interesse di tutti i cittadini e per consentire alla stessa CEI di occuparsi liberamente, secondo la propria missione, delle cose di Dio.
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PROPOSTA DI LEGGE COSTITUZIONALE
1. Al terzo comma dell’articolo 57 della legge 20 maggio 1985, n. 222, le parole: «3 componenti designati dalla Conferenza episcopale italiana» sono soppresse.
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