L’EUTANASIA CONTESTATA A UN DETENUTO
Si può decidere di rinunciare alla vita a novantun anni, sedute al tavolo di cucina, e si ingeriscono una quantità di ansiolitici che ti procurano un sonno da cui non ci si risveglia più, come un anno fa ha fatto la scrittrice femminista Carla Ravaioli, preda di un male oscuro che ti tormenta più di una dolorosa malattia; si può decidere di farla finita come tre anni fa ha scelto il regista Mario Monicelli, “volato” dal balcone al quinto piano dell’ospedale San Giovanni di Roma; o come Carlo Lizzani: “un gesto da lucidità giovane”, definisce la scelta di Monicelli, e poi lo imita lasciandosi scivolare giù, dalla finestra di casa. Oppure come Lucio Magri, dopo aver attentamente programmato, e fatto ricognizioni, la fine in una clinica svizzera… E più di recente il caso di Brittany Maynard, ammalata di un tumore devastante, innamorata della vita, e che tuttavia sceglie di trasferirsi nello stato dell’Oregon, e muore con dignità, come voleva. Storie diverse, certo; e che non ci si deve permettere di giudicare; bisognerebbe piuttosto cercare di capire, comprendere.
Ora il caso di Frank Van Den Bleeken, l’assassino stupratore seriale belga in carcere da trent’anni, e che ha chiesto l’eutanasia, perché si ritiene inguaribile, vittima di raptus e impulsi irrefrenabile che lo condurrebbero a rifare i delitti che ha commesso, “…preda di fantasie atroci, se tornassi libero rifarei tutto. Sono un pericolo per la società, ma sono anche un essere umano, e qualunque cosa abbia fatto, resto un essere umano. Perciò concedetemi l’eutanasia”. Van Den Bleeken dice di aver ben ponderato la decisione di farla finita, è consapevole, così ha scelto. In un primo momento le autorità belghe avevano acconsentito. Poi, probabilmente anche sull’ondata che questo caso ha provocato, ci hanno ripensato. La questione però resta, per le sue implicazioni giuridiche ed etico-morali.
L’altro giorno Vittorio Feltri, che si è formato alla scuola di Indro Montanelli e sempre più somiglia al suo “maestro”, ha affrontato la questione, arrivando alla conclusione che “se un cristiano confessa di non essere in grado di resistere alla tentazione di uccidere e stuprare, significa che non è responsabile delle sue azioni se non quella di voler soffocare i propri tormenti riposando al cimitero. Aiutarlo ad andarci è un gesto di pietà pura che non collide con la morale evangelica. Amen”. Confesso di non riuscire, in questo caso, ad avere la certezza di Feltri, pur essendo sostenitrice della necessità di legalizzare la “dolce morte”, che vi sia anche in Italia una legge che eviti ai Monicelli, ai Lizzani, ai tanti suicidi di ogni giorno, di togliersi la vita come hanno dovuto fare; che consenta ai Lucio Magri di poterlo fare come hanno fatto, senza dover “emigrare” in Svizzera; e mi interrogo, sarebbe disonesto negare i miei dubbi e le mie perplessità, sull’esser giusto che un detenuto possa chiedere di essere aiutato a sopprimersi perché “soffre troppo” a livello psicologico; non faccio del moralismo a un tanto al chilo. Mi chiedo se consentire a individui come Van Den Bleeken non sia “anche” una sconfitta di quanti (in Belgio, ma il discorso vale anche per l’Italia, ovviamente), non hanno saputo (o potuto, o voluto) assicurare una assistenza sufficiente anche ai Van Den Bleeken, e se una persona detenuta sia davvero nella condizione di poter scegliere in “scienza e coscienza”, se insomma lo si possa davvero ritenere consapevole; a chi dice che era giusto riconoscere a Van Den Bleeken riconoscere il diritto alla “dolce morte” rispondo che nutro parecchie riserve, ho molti dubbi. Una cosa però, va comunque riconosciuta a Feltri: l’aver affrontato la questione, l’aver espresso con chiarezza il suo punto di vista, e di aver avviato, si spera, un dibattito.
Di queste cose infatti non se ne parla, non ci sono confronti in trasmissioni di grande ascolto, si glissa e si preferisce ignorare; eppure sono questioni che ci riguardano, tutte e tutti, nessuno escluso: scegliere come e quando farla finita è una facoltà che dovrebbe essere riconosciuta a tutti, inscindibile dal libero arbitrio che nessuno mette in discussione; poi, evidentemente, ognuno si comporta come crede e ritiene. Una quantità di sondaggi demoscopici documentano che l’opinione pubblica sente l’esigenza di poter discutere e confrontarsi su questioni cruciali come questa; eppure è quello che non accade: una classe politica sorda, indifferente, pavida non mette neppure all’ordine del giorno la discussione di progetti di legge depositati, rinuncia perfino ad avviare un’indagine conoscitiva per accertare le dimensioni del fenomeno “eutanasia clandestina” che viene quotidianamente praticata negli ospedali e nelle cliniche italiane. Se chi è contrario alla legalizzazione dell’eutanasia ritiene di avere buoni argomenti per motivare il suo NO, dovrebbe avere tutto l’interesse a potersi esprimere e far conoscere le sue ragioni. Che invece si preferisca il silenzio omertoso, si tema il confronto e il dibattito, vorrà pur dire qualcosa…
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