Int. a M.A. Farina Coscioni – La donna che non sapeva di essere molto forte
Avrebbe potuto diventare un’insegnante. Condurre un’esistenza tranquilla a Vetralla, il piccolo centro del viterbese dov’è nata e cresciuta. Invece ha scelto di sposare un uomo condannato a morte dalla Sclerosi Laterale Amiotrofica. Una malattia degenerativa e progressiva del sistema nervoso che paralizza i muscoli, compresi quelli respiratori. Al fianco del marito Luca Coscioni e insieme ai Radicali di Marco Pannella ha ingaggiato una battaglia politica per la libertà di ricerca scientifica, contro i veti ideologici che impediscono di sperare a svariati milioni di malati nel mondo. E lotta ancora oggi, da Presidente dell’associazione che porta, il nome di Luca e sugli scranni della Camera (deputata radicale nel gruppo del PD) dove si è distinta per impegno e produttività.
Maria Antonietta Farina Coscioni racconta le sue due vite. Le paure e le speranze. La morte e l’amore. Il rapporto con la fede, con il dolore e la politica. Piange, ride e ci svela il segreto della sua forza: non sapere di essere forte.
Maria Antonietta, quali erano le tue aspirazioni da ragazza?
Ho sempre avuto una grande passione per l’insegnamento. Durante il periodo dell’università davo lezioni private di Economia aziendale a intere classi di studenti. Li preparavo per la maturità o per gli esami di riparazione. L’ho fatto per anni. Mi piaceva il rapporto di scambio reciproco che si instaurava con gli studenti. Un rapporto anche severo, all’interno del quale insegnavo loro a studiare con responsabilità e con loro condividevo la soddisfazione per i progressi compiuti e i risultati ottenuti. Diciamo che allora non avevo problemi di autostima (ride). Era un impegno che mi riempiva, al quale però ho dovuto rinunciare quando io e Luca ci siamo sposati.
Con rammarico?
No, no. Avrei anche potuto continuare a insegnare, organizzando diversamente il tempo. E all’inizio ho creduto che avrei potuto farlo davvero. Poi ho dovuto smettere per ragioni pratiche, oggettive.
Una passione, quella per l’insegnamento, che avevi in comune con Luca…
Sì. Ci siamo conosciuti all’università. A Viterbo, dove lui faceva il dottorato di ricerca e io studiavo Economia.
Che persona era?
Era una persona positiva e con un forte senso del giusto (si commuove). Non accettava la falsità, l’ipocrisia, l’arroganza. E in politica le ha combattute sempre, a cominciare dalla sua esperienza da consigliere comunale di opposizione a Orvieto, interrotta dalla sua malattia.
E poi?
Amava il contatto con la natura. Amava il mare e lo sport. Specialmente gli sport che lo mettevano in competizione non tanto con gli altri, ma con se stesso. Come la maratona. Luca però non si fermava mai dopo il traguardo. Raggiunto un obiettivo, pensava subito al successivo. Ed è così che ha vissuto la sua malattia.
Quando avete scoperto che era malato?
Era il 1995 e mentre si allenava per la maratona di New York iniziò ad accusare problemi a una gamba. Ci conoscevamo da appena un anno, l’unico anno di vita – diciamo così “normale” trascorso insieme, accomunati dall’interesse per lo studio e l’insegnamento. Poi abbiamo iniziato a confrontarci con il suo male.
Avete capito subito che si trattava di Sclerosi laterale amiotrofica?
Per un anno e mezzo abbiamo girato l’Italia e l’Europa, prima per sperare che non si trattasse di SLA, poi per sapere quali fossero i neuroni danneggiati. Quando ha scoperto di avere una malattia mortale si è dimesso dal consiglio comunale, perché sapeva che non sarebbe stato più in grado di portare avanti la sua attività politica a Orvieto con lo stesso impegno di prima. Poi ha iniziato a studiare la malattia. Il suo punto di riferimento sono diventati gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Da lì si faceva spedire documentazione e riviste di medicina. A volte la sua famiglia gliele nascondeva, pensando che tenerlo all’oscuro della natura del suo male potesse aiutarlo a soffrire di meno. Noi invece abbiamo sempre creduto che fosse possibile fare della conoscenza una forza. La contrapposizione tra queste due visioni ci ha accompagnato lungo tutto il percorso della malattia, durante il quale abbiamo intrapreso la battaglia per la libertà della ricerca scientifica, per uscire da una concezione della medicina cosiddetta “paternalistica” e dall’oscurantismo delle gerarchie ecclesiastiche, assecondato da una certa classe politica.
Dunque la reazione di Luca alla notizia della malattia è stata aggressiva…
C’è stata una fase violenta dell’accettazione della malattia, legata alla perdita dell’indipendenza e dell’autonomia nell’uso del corpo. Particolarmente difficile per una persona come Luca, esigente con se stesso e con gli altri, che del suo corpo faceva uno strumento importante, non solo nello sport. Poi per la difficoltà via via più grave di comunicare con gli altri. Nella comunicazione ci affidavamo a sofisticati strumenti tecnologici, o potevo aiutarlo io stessa facendogli da traduttore. Ma non esiste un ausilio valido per la muscolatura che smette di rispondere alla tua volontà di movimento. Luca, infatti, era stato colpito al primo e al secondo neurone del moto.
E tu come hai reagito?
Io mi sono comportata come un elastico. Mi estendevo e mi ritraevo a seconda delle esigenze e delle richieste. Questo ha fatto sì che io e Luca ci muovessimo come una sola persona. Vivevamo in simbiosi e io provavo a essere tutto ciò che Luca non poteva più essere. Il mio ruolo al suo fianco mi ha resa cosciente di quanto sia importante il diritto di espressione di una persona malata. La libertà di esprimere le proprie esigenze e volontà. Non so se oggi riuscirei a fare tutto quel che ho fatto allora.
Hai avuto paura?
No, la paura di quello che è stato la avverto oggi, ma sul momento non l’ho avvertita. Forse per incoscienza. O, più semplicemente, per un atteggiamento positivo, che non mi ha mai fatto pensare alla morte, né al tempo che restava da vivere a mio marito. Io pensavo che avremmo potuto vivere insieme a lungo. Quando Luca mi ha chiesto di sposarlo dovevo ancora finire l’università, ma ho accettato subito.
Non hai pensato al futuro?
Volevo vivere, in quel momento, ciò che in un altro momento non avrei potuto vivere allo stesso modo.
Vi siete sposati in chiesa?
Si, ci ha sposati un sacerdote molto particolare. Un ex generale che, dopo una vita in divisa, a 60 anni ha deciso di prendere i voti. Non ci ha mai chiesto di frequentare un corso prematrimoniale. Era lui a venire da noi, diceva, per apprendere. Luca non era un “mangiapreti”, in passato aveva pure l’Azione Cattolica.
E tu che rapporto hai con la religione?
Mi considero una donna di fede. Per qualche anno ho anche fatto la catechista.
Una cattolica praticante, quindi?
Mi sono sempre scontrata con questa differenza.: tra praticante e non praticante. Io penso che esista una “pratica”, senza la quale non avrebbe senso parlare di fede o spiritualità. Ma che non ha nulla a che vedere con il culto, i sacramenti… Non è roba per me quella. Praticare significa riversare nella quotidianità quello in cui si crede. A me è venuto spontaneo. Quando Luca stava male, in molti mi invitavano a pregare per il miracolo. Io però non l’ho mai fatto. Per me il miracolo era quello quotidiano di inventarci e reinventarci. Di vivere giorno dopo giorno l’esistenza straordinaria che avevamo creato. Continuo a credere che esperienze di questo genere ti debbano cambiare la vita.
Ti riferisci alla malattia?
E alla diversità in genere. Quelli che dicono che la vita in fondo continua, senza cambiare, non capiscono che ci sono esperienze che hanno un seguito anche quando sembrano finite. Sulla battaglia e sul nome di Luca Coscioni non accetto compromessi al ribasso. A distanza di 15 anni le nostre ragioni sono ancora validissime e la nostra battaglia di grande attualità (si commuove ancora).
Fa male raccontare?
No, non è dolore, sono i ricordi. È l’emozione.
Col dolore, invece, come ti relazioni?
Quindi la tua forza è stata data per scontata?
Sembra che in queste situazioni se non scappi, sei una roccia. Che non hai bisogno di nulla.
E invece?
Io ho affrontato la malattia di Luca pensando che potessimo vivere come in una favola. Ci ho messo un po’ a capire che non sarebbe stato così. Che la malattia avrebbe fatto il suo corso rapidamente. La mia forza naturale è stata invece, come dicevo, la mia incoscienza, oltre all’amore che ci legava. Se allora mi fossi fermata a riflettere su quello che facevo o che avrei dovuto fare andando avanti, sarei stata assalita dalla paura. Dalla stessa paura che sento adesso, ogni volta che ci ripenso.
E non ti sei mai chiesta come sarebbe potuto essere senza la malattia di Luca. Se ti mancasse qualcosa?
No, mai. Anzi, ero molto serena, allora. Più serena di quanto sia oggi. Facevamo moltissime cose grazie alla tecnologia. Ho imparato talmente tanto sui collegamenti radio e video, che usavamo per partecipare da casa a riunioni e conferenze, che non credo avrei difficoltà a trovare lavoro, qualora ce ne fosse bisogno: sarei un tecnico provetto (ride). Con la tecnologia potevamo coprire le distanze, superare i confini, conoscere il mondo attraverso internet. Poi però, quando sono uscita da quella dimensione così intima, nella quale mi sentivo protetta, mi sono resa conto che in realtà il mondo era profondamente diverso. E che io, paradossalmente, non lo conoscevo. Che anche il rapporto con le persone e con i luoghi era molto differente. Quando, alla morte di Luca, ho dovuto cambiare il mio stile di vita, mi sono accorta, che non sapevo gestire il tempo. Perdevo i treni, ad esempio.
Perdevi i treni? Che vuoi dire?
Durante la vita con Luca la mia giornata non era scandita da orari. Non c’era differenza tra la domenica e gli altri giorni. Potevo fare di notte le stesse cose che facevo di giorno. Le ventiquattro ore sembravano più lunghe perché il tempo era dilatato. Quando nel 2006 venivo a Roma per la campagna elettorale, mi alzavo alle 6 per prendere il treno alle 8. Pensavo che due ore mi bastassero, in fondo non dovevo far altro che prepararmi e uscire. Invece no, non le riuscivo a gestire e spesso perdevo il treno. Mentre in due ore di una giornata con Luca avrei fatto un’infinità di cose.
Quindi a un certo punto hai dovuto rielaborare il tuo rapporto con il tempo?
Protetta da cosa?
Una vita così poco influenzata dall’esterno è anche una vita, con pochi pensieri. La percezione dei problemi è minore. Prendendomi cura di Luca, mi sentivo più protetta anch’io. Più serena, come dicevo.
Per esempio?
Cucinare è una cosa che praticamente non ho più fatto. Quando Luca era vivo, aveva un senso che io uscissi per andare a fare la spesa, anche se lui si nutriva, con metodi artificiali e cibi sintetici. Il fatto però di andare al supermercato era funzionale alla nostra vita e funzionale per me. Oggi, invece, ancora non sono riuscita a ripristinare questa cura nei riguardi di me stessa.
Questo microcosmo privato e protetto, però, a un certo punto lo avete reso espressione pubblica e trasformato in una battaglia.
Mostrarci era l’unico modo per superare alcuni limiti. Quando ci siamo avvicinati ai Radicali, ad esempio, l’abbiamo fatto mostrando la nostra vita. Loro non sapevano dell’esistenza del sintetizzatore vocale che usava Luca per comunicare, come non sapevano di alcuni divieti sulla ricerca vigenti in Europa che stavano per radicarsi anche in Italia.
Hai mantenuto la tua fede?
Sì, anche se le mie scelte non sono state comprese del tutto proprio da quelle persone che dovrebbero definirsi di fede.
Cioè?
Quando Luca era vivo, il protagonista delle battaglie politiche risultava lui, sebbene quelle battaglie le facessimo insieme. Quando ci siamo battuti sui temi cosiddetti eticamente sensibili, opponendoci alle posizioni della Chiesa, le mie azioni erano interpretate e ammirate soprattutto dalle persone di fede (e praticanti secondo l’accezione comune) come il frutto dell’atteggiamento compassionevole di una donna che aveva deciso di stare al fianco di un uomo malato, infermo, costretto sulla sedia a rotelle. Come conseguenza delle battaglie di mio marito. Per molti, quindi, la, mia è stata una missione.
E quando Luca è morto?
Io ho continuato con l’impegno politico e sono stata giudicata, a volte attaccata, dal pulpito di una chiesa, magari dalle stesse persone che mi avevano sostenuto come moglie compassionevole. Da quel momento in poi le mie scelte, finalmente considerate mie e mie soltanto, erano da condannare perché con Luca era venuto a mancare anche 1’alibi” della malattia. Fortunatamente noi sappiamo distinguere tra gerarchie ecclesiastiche e una chiesa diversa, fatta di uomini e di donne diversi. E sono proprio i rappresentanti di questa chiesa diversa ad avermi sostenuta nell’attività politica anche dopo la morte di Luca. Sacerdoti che condividono la mia, la nostra visione sulla ricerca scientifica e sui temi etici. E anche in queste cose che vivo la mia fede, la stessa fede che mi ha spinta a impegnarmi con Luca davanti a Dio, per conferire alla nostra unione un valore maggiore.
Dunque ti sentivi impegnata attivamente in politica già allora? Sapevi di essere, insieme a Luca, il simbolo di una battaglia?
Sì. Anche se, quando Luca nel 2000 si è presentato alle prime elezioni online del Comitato di coordinamento dei radicali e poi è stato eletto Presidente di Radicali Italiani, non immaginavo i risvolti. Alle politiche del 2006 sarebbe stato candidato nelle liste della Rosa del Pugno e, con il meccanismo delle liste bloccate, probabilmente sarebbe entrato in Parlamento. Ma sapeva di aver ormai incardinato la sua battaglia tra i Radicali e attraverso il partito, nel Paese. Penso che anche per questo decise di non sottoporsi alla tracheotomia. Morì a febbraio, il 20. A quel punto si sarebbe potuto dare per scontato che io lo sostituissi in lista, nella stessa posizione. Ma, non andò così. Fui candidata in una posizione che non garantiva l’elezione. E non smetterò mai di ringraziare Marco (Pannella ndr) per questo.
Perché?
Perché in questo modo mi ha protetta da giudizi e accuse che sicuramente mi sarebbero state rivolte.
La scelta di portare avanti il tuo impegno politico è stata un’evoluzione naturale della tua storia, o c’è stato un momento in cui l’hai deciso?
Il giorno del funerale di Luca, Pannella mi ha chiesto: «che vuoi fare da grande?».
E tu cosa hai risposto?
Gli ho detto: voglio continuare a, fare quello che faccio. Lui non ha avuto bisogno di chiedermi “cosa,fai?”, lo sapevamo entrambi. Così a settembre del 2006 mi sono trasferita a Roma. Mi sono dedicata all’associazione (l’Associazione Luca Coscioni ndr). Poi nel 2008 è arrivata l’esperienza parlamentare. Non potrei dedicarmi ad altro, per ora. Il nostro impegno, il mio, credo sia quello di liberare la società dalle discriminazioni che si verificano ancora ovunque, a partire da una realtà che credo di conoscere molto bene, come quella delle persone malate e disabili.
Che ruolo ha avuto Marco Pannella nella tua vita, dopo la morte di Luca?
Fondamentale. E lo ha tutt’oggi. È l’unico che io conosca che riesce a individuare subito i punti forti delle persone, ma soprattutto i punti deboli. E mentre dà per scontati i punti forti di ciascuno, lavora su quelli deboli per irrobustirli.
Prima dell’incontro con i Radicali avevi mai immaginato di poter ricoprire un incarico istituzionale come quello di deputato?
Se penso alla mia passione per l’insegnamento, prima, e alla mia vita con Luca, poi…no, non ci avevo mai pensato.
Eppure nella classifica stilata da Openpolis ti sei classificata prima tra i parlamentari per produttività…
Sì. Quando intraprendo una nuova, esperienza, mi impegno a conoscere a fondo gli strumenti a mia disposizione. Appena entrata alla Camera dei deputati, nella Commissione Affari Sociali, ho studiato il regolamento, per scoprire tutte le possibilità e i mezzi di cui dispongo per la mia iniziativa parlamentare.
Con te, sul podio di questa classifica, ci sono le tue compagne radicali Elisabetta Zamparutti e Rita Bernardini.
Con loro ho condiviso anche la dirigenza di Radicali Italiani. Quando ne sono stata la Presidente, infatti, Rita era la Segretaria ed Elisabetta la Tesoriera. Un vero e proprio “matriarcato” come lo chiamiamo tra radicali, che abbiamo replicato alla Camera.
È una bella soddisfazione…
Certo, ma nulla di straordinario. Per noi è normale mettere nell’attività parlamentare lo stesso impegno che mettiamo in tutte le altre cose, con pari intensità. Proprio come insegna la scuola radicale. È il solo modo di fare che conosciamo.
Cosa sogni per il tuo futuro?
Di vedere realizzati un po’ degli obiettivi che con Luca ci siamo posti tanti anni fa, sulla libertà di ricerca scientifica e il diritto all’autodeterminazione di ogni essere umano.
E L’amore?
La fortuna sarebbe incontrare una persona che ami me come io ho amato Luca. In maniera incondizionata. In amore si può negoziare, ma non porre delle condizioni. Con Luca, era così. Nella fase finale della sua vita mi disse: «Con te ho capito cosa significa amare veramente». Non immolarsi per l’altro, ma valorizzarlo rispettando la sua libertà. La politica dovrebbe funzionare allo stesso modo. Come una sorta di amore civile.
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