Se la politica scopre l’anima nelle bestie
Quello della sperimentazione animale è un tema importante. Perché socialmente molto sentito e da cui dipende la capacità della scienza di progredire nella spiegazione dei processi fondamentali della vita. Quindi anche dei meccanismi che provocano le malattie, da cui deriva gran parte della sofferenza umana. L’Unione europea ha emanato una direttiva (63/Ue del 22 settembre 2010) sul benessere animale in condizioni di sperimentazione scientifica, nonché di allevamento e di trasporto, per migliorare le condizioni di vita degli esseri non umani. L’uso ai fini della sperimentazione è consentito per diverse specie animali, inclusi i primati non umani, purché non siano stati direttamente catturati in natura.
In Italia, come da copione, non si sta discutendo delle implicazioni di quella direttiva. Sono state semplicemente espresse ai “massimi” livelli politici e intellettuali posizioni di pura e semplice condanna. Si va dal manifesto sulla coscienza degli animali della ministra Brambilla, sottoscritto da decine di letterati e artisti e dall’oncologo Umberto Veronesi, a una mozione presentata al Consiglio regionale della Lombardia da Renzo “Trota” Bossi, a «testimonianza d’amore e di affetto per tutti gli animali», in cui si chiede che la Regione solleciti il Governo italiano a emanare norme più restrittive in merito alla sperimentazione animale. Tanto per confondere le idee l’argomento viene associato ai problemi sollevati dalla caccia (e perché non la pesca?), alla strage pasquale di agnelli e capretti e all’uso del frustino per governare i cavalli. L’oncologo Veronesi, a dispetto delle sue adesioni al darwinismo e della laicità radicale a cui ci aveva abituati, predica addirittura il vegetarianismo come destino “biologico” dell’evoluzione umana. Chi scrive non è indifferente alla sofferenza animale. Ma nemmeno alla sensatezza degli argomenti usati per giustificarne la riduzione. Nel manifesto Brambilla-Veronesi si dice che «chi rispetta la Vita deve rispettarne ogni forma», soprattutto in considerazione del fatto che «gli animali hanno un elevato livello di consapevolezza, coscienza, sensibilità e molti di loro hanno la capacità di sviluppare sentimenti».
Lasciamo da parte il sapore quasi giainista del manifesto, che implicherebbe logicamente di abbracciare l’ahinsa (o ahimsa) cioè l’assoluta non violenza, evitando di offendere o uccidere qualsiasi forma vivente. Dubitiamo che l’invito sia a evitare la strage di batteri che perpetriamo ogni giorno con un po’ di sapone. Il cuore della faccenda è la coscienza. Gli animali, si dice, hanno un elevato livello di coscienza, consapevolezza e magari sentimenti. Ma quali animali e che forme di coscienza?
Pochi attribuirebbero la coscienza al paramecio, ai vermi e ai ragni. Naturalmente se ne può discutere. Il panpsichismo è un punto di vista affatto non banale. Ma i nostri non si avventurano lungo troppo ardite speculazioni filosofiche. Allora dobbiamo ammettere che come ci muoviamo tra le specie, osserviamo che i simpatici pulcini sono in grado di esibire elementi di cognizione numerica, i topi sono abilissimi risolutori di labirinti e molte specie di uccelli manifestano capacità di categorizzazione. Poiché uno stato di coscienza può, in molti casi, essere coscienza di, il suo complemento cognitivo potrebbe ben essere uno di quelli sopra elencati. Se è così, dobbiamo però mettere al bando anche i derattizzatori crudeli e le tecniche anti-piccioni o anti-storni. Con le conseguenze sanitarie o i pericoli poco auspicabili, ad esempio per il volo aereo, che ne deriverebbero.
Considerando che da alcuni decenni la natura della coscienza è oggetto di studi sperimentali, se prendiamo seriamente l’uso del termine nel manifesto, la questione si complica ancora di più. Che specie non umane abbiano forme di coscienza di sé è probabile, ma le prove inoppugnabili a favore sono scarse e dibattute. Il test dello specchio, ideato alcuni decenni or sono da Gordon Gallup jr., assegna la coscienza di sé a quelle specie in grado di riconoscere la propria immagine riflessa nello specchio. Poche specie (grandi scimmie, elefanti, delfini) lo passano. La gran parte fallisce. Come accade però anche a quegli esseri umani che soffrono di prosopagnosia, l’incapacità di riconoscere il proprio volto allo specchio, o ai neonati. Inoltre, è ancora dibattuto se qualche animale sia in grado di superare il test della falsa credenza: ovvero credere che qualcosa non sia vero, e attribuire tale capacità ai conspecifici.
Quasi tutti i neuroscienziati accettano la gradualità delle manifestazioni di coscienza, e rifiutano l’idea che si tratti di un’essenza che qualifica metafisicamente ogni forma di vita o quasi miracolosamente un’unica specie. La coscienza non è una proprietà essenziale della vita animale. Si tratta probabilmente di una funzione di controllo prodotta da strutture complesse, come nel caso del cervello umano e resa manifesta tramite una elevata salienza esperienziale.
Quindi è una questione di gradi, sia a livello della sua manifestazione individuale sia sul piano del potenziale integrativo o informazionale che possono esprimere i fenotipi comportamentali delle diverse specie. I firmatari del manifesto usano i termini «vita» e «coscienza» in modo non tecnico, bensì culturalmente generico. Ovvero «politico». Vogliono una società più etica nei confronti degli animali, perché essi ci accompagnano nel cammino della vita. Una posizione apprezzabile. Ma non si può fare a meno di notare che diversi esponenti della maggioranza di governo, colleghi della ministra Brambilla – incluso il papà del Trota – rilasciano dichiarazioni o agiscono per negare a Rom e cittadini extracomunitari alcuni diritti fondamentali e altri invocano la doppietta per respingere umani coscienti su barconi fatiscenti. Inoltre, nel mondo i conspecifici che soffrono per malattie e fame sono miliardi. Sarebbe forse il caso di iniziare applicando seriamente la carta dei diritti dell’uomo, visto che i membri di quella specie sono sicuramente coscienti. Altrimenti si rischia di apparire solo un po’ degli snob.
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