“Burqa di carne”? La metafora molto infelice di Ravasi
“Partiamo dal significato delle parole: cosa si intende per chirurgia estetica? Ci soccorre la Treccani: “É la branca della chirurgia che si propone di correggere o migliorare gli inestetismi, siano essi congeniti o acquisiti in seguito a malattia, a eventi di tipo traumatico oppure parafisiologico quale l’invecchiamento”. In tal senso si differenzia dalla chirurgia ricostruttiva che si occupa di “alterazioni morfologiche che sottendono una condizione patologica”. Cosa seria, dunque, la chirurgia estetica; e anche a volerne limitare il campo al solo aspetto fisico che si intende migliorare (ma abbiamo visto che così non è, se è vero che in questo campo rientrano inestetismi congeniti o acquisiti per malattia o eventi traumatici come incidenti, ecc.), non si comprende perché la si debba condannare a priori o scrutarla con sospetto. Ancor meno si comprende perché il cardinale Gianfranco Ravasi, che pure soppesa sempre con molta attenzione le parole, abbia inteso difendere un’affermazione infelice come quella che equipara la chirurgia estetica “a un burqa di carne”. L’affermazione, più propriamente, è contenuta nel documento preparatorio per la plenaria del Pontificio Consiglio della cultura dedicata ai saperi femminili e forse in origine non è di monsignore; ma Ravasi la fa comunque sua, la difende, e rincara la dose: trova infatti “impressionante la crescita della chirurgia estetica per aderire a un modello estrinseco” e cita, volendo giocare facile, il caso di “diciottenni che chiedono per il compleanno un nuovo seno”.
Questo delle diciottenni potrà pur essere, oltre che un caso limite (quante saranno? Esiste al riguardo una ricerca, una statistica, uno studio?), un caso discutibile; anche se più che la diciottenne forse andrebbe discusso chi quel regalo è disposto a farglielo. Quello che comunque colpisce è l’equiparazione: “burqa di carne”. Con tutto il rispetto per monsignore, certi paragoni sarebbe meglio non farli; monsignore certamente sa cosa sia, cosa rappresenta il burqa. Non banalizziamo la tragedia che il burqa costituisce e significa per milioni di donne, al loro carico di sofferenza e dolore non aggiungiamo l’oltraggio di queste parole.Vorrei sollecitare monsignore a una riflessione: perché volendo esprimere la sua contrarietà per la chirurgia estetica che circoscrive al caso di qualche ragazza che intende rinforzare il suo seno, non ha invece citato altri esempi. Immagino sappia che i casi di chirurgia estetica per ringiovanire, per migliorare il proprio aspetto (e resta da spiegare cosa vi sia in ciò di negativo), non è solo prerogativa femminile. Non c’è solo la donna che a un dato momento della sua vita può desiderare un seno più florido, un sedere meno schiavo della legge di gravità. Il desiderio di conservare briciole di giovinezza, o semplicemente di “sentirsi più bella” non appartiene al solo universo femminile. Ma anche a quello maschile! Anche questo ultimo rientra nella categoria del “burqa di carne”? Forse non sarebbe inutile interrogarsi sul perché un lifting femminile, equivale a “un burqa di carne”, mentre se lo stesso lifting riguarda un uomo questo burqa non lo si evoca.
Sempre a proposito del “burqa di carne”, monsignore definisce l’espressione “pertinente, anche se sferzante”. Per quel che riguarda la pertinenza, siamo evidentemente nel campo delle opinioni; ma perché si sente la necessità di essere sferzanti? Perché questa volontà di percuotere, di esser così aspri e feroci nella critica? Si può anche scendere nel terreno che monsignore sembra voler percorrere: e cioè che chi vuole un naso migliore o qualche ruga in meno sia una persona con un fondo di insicurezza interiore, con un disagio figlio di chissà quale vicissitudine; ma se così è, che senso ha “sferzare”? Non sarebbe più opportuno e utile lavorare sulle ragioni di questa insicurezza, di questo disagio? Non è più cristiano comprendere, invece di condannare? E comunque, se un intervento di chirurgia estetica può far sì che una persona stia meglio con se stessa, perché deve essere condannata e la si addita come vittima di un “burqa di carne”?
Oltre alla già citata visione maschilista che la polemica accesa da monsignore sottende, c’è forse un altro aspetto: da sempre le gerarchie, non solo cattoliche, vogliono esercitare un controllo sui corpi delle persone. Qui ci si perdonerà una divagazione che qualcuno forse troverà azzardata: esattamente come si dice NO al testamento biologico, all’eutanasia, alla possibilità di poter determinare autonomamente se e quando una vita non merita più di essere considerata tale – ed è un NO che intende ribadire un formale controllo sulla gestione dei corpi, perché la pratica, lo san tutti, è altra, ma si faccia pure senza dirlo – ecco che arriva dal Pontificio Consiglio della cultura e da monsignor Ravasi un NO alla chirurgia estetica, esorcizzata come un “burqa di carne”. È da credere che ne avremo tanti altri di questi NO e sempre più frequenti. Proprio perché questi NO risultano sempre meno sopportabili, e ci si vuol liberare dal burqa mentale in cui ci si vorrebbe tener ingabbiati”.
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