Marco Pannella, due mesi dopo

Due mesi dalla morte di Marco Pannella: per me non solo un grande leader politico, soprattutto una persona che ho trovato sempre al mio fianco e al fianco di mio marito Luca; una persona che ha saputo trovare le parole, i gesti giusti e necessari per aiutarci a superare i non pochi momenti difficili, dolorosi che ci sono toccati. Marco è stato per me una presenza unica e sembra aver lasciato un vuoto al momento non colmabile. Anche per questo ho trascorso tutti questi giorni in un silenzioso e faticosissimo percorso di riflessione su quello che è stato con Pannella; e quello che potrà, potrebbe essere ora, senza Marco. Ma è giunto il tempo, forse, di cercare di condividere qualcosa di quei miei pensieri, di quelle mie riflessioni.

Marco per tanti di noi è stato l’equivalente di una stella polare: per quello che ha fatto, per quello che ha cercato di fare, per come lo ha fatto, perché sono convinta che anche gli strumenti e non solo i fini, sono importanti e hanno valore e danno valore; e penso, in particolare, al suo non stancarsi mai di coniugare lo “strumento” della nonviolenza con lo “strumento” del diritto e della giurisdizione.

Marco dava corpo, nel senso più autentico e letterale all’azione politica; ed era, è, il segreto della politica radicale. Dare corpo significa centralità della persona, con i suoi bisogni, i suoi diritti; una centralità che dovrebbe essere fondamento delle ragioni e del programma del nostro agire politico. Il corpo del malato che diventa esso stesso strumento di iniziativa politica, come volle e seppe fare Luca Coscioni. Il corpo degli affamati e degli assetati, quando negli anni Ottanta ci si mobilitò contro l’Olocausto per fame nel mondo che si consumava ogni giorno, tra la generale indifferenza. Il corpo del recluso, del prigioniero in carcere: che ancora oggi patisce quello che tutti ormai riconoscono essere un “trattamento inumano e degradante”.

Attualità politiche che si intrecciano con il passato. Penso a un intervento di Pannella del lontano aprile del 1978, alla commissione Igiene e Sanità della Camera dei Deputati. Si evidenziava come la chiusura dei manicomi senza la realizzazione di strutture e la previsione di adeguati servizi territoriali a servizio appunto delle persone, dei corpi e delle menti martoriate da sofferenze psichiche e delle loro famiglie, avrebbe procurato un aumento della conflittualità sociale e le frustrazioni; era “solo” un intervento legislativo “per impedire il fatto politico dei referendum…compiendo un atto di irresponsabilità”…

Anche per tutto questo sono convinta che ci sia necessità ancora di una politica radicale, e non di un agire a compartimenti stagni, facendo circolare il capitale umano e non, per affrontare, con libertà e onestà intellettuali e senza pregiudizi, quella, per esempio, che è, ancora oggi, una sfida tra le più importanti: il rapporto tra ricerca scientifica, genetica, etica, diritto, informazione, conoscenza e politica…

C’è un metodo “antico”, che ritengo essere più che attuale: non tanto una generica, fumosa, vacua ricerca di posticce unità; piuttosto una “unione” delle persone di buona volontà, unione laica delle forze.

In questi giorni accade qualcosa di straordinario.
Per la prima volta, nella storia del Partito Radicale (ma se non vado errata, vale anche per tutti gli altri partiti), accade che – avvalendosi di una precisa norma statutaria – un terzo di iscritti con almeno sei mesi di “anzianità” di tessera, hanno convocato il congresso del Partito Radicale Nonviolento Transazionale Transpartito.

Un’iniziativa che viene da quanti, iscritti, tesserati, hanno deciso di dare valore a quella tessera: valore e significato, vale a dire non essere militanti “passivi” come spesso accade, ma protagonisti che decidono di avvalersi dei diritti e delle prerogative che lo Statuto riconosce loro. Il militante, l’iscritto diventa “attore”, e non spettatore che si limita a registrare decisioni prese da una “dirigenza”. Già questo solo fatto, merita credo, di essere attentamente valutato, e non solo nell’ambito radicale; e, per quel che riguarda almeno i radicali, le “dirigenze” delle varie associazioni che costituiscono la galassia del Partito Radicale Nonviolento Transazionale Transpartito dovrebbero salutare positivamente questa diretta assunzione di responsabilità del militante-iscritto: di più, agevolarla, favorirla. È paradossale, ma accade esattamente il contrario: c’è una parte di quei “dirigenti” (non tutti, per fortuna), che oppone resistenza, frappone ostacoli, vede con sospetto l’iniziativa, e poco importa che lo faccia per miopia o per pavloviano riflesso di conservazione. Il risultato non muta.

Ad ogni modo, il Congresso del Partito Radicale è dagli iscritti convocato per il 1-2-3 settembre, e si farà. Dove? Anche qui, una novità: nel luogo di reclusione ed esclusione per eccellenza, un carcere; nel caso specifico, il carcere romano di Rebibbia, grazie alla collaborazione del Ministero di Giustizia, del DAP, di tutto quel mondo che attorno al carcere vive e soffre. Naturalmente organizzare un evento simile comporterà problemi tecnici da superare; ma anche qui: è uno sprone in più, un ulteriore stimolo e impegno, che responsabilizzerà maggiormente gli iscritti e chi vorrà partecipare a questo inedito evento. Una bella scommessa, ambiziosa certamente. Ma proprio per questo vale la pena di giocarla. In ogni caso, può essere occasione e “pretesto” per un dibattito e una riflessione che non può che essere utile e preziosa per tutti. Radicali del Partito Radicale e non.

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